Rami secchi by Mario Soldati

Rami secchi by Mario Soldati

autore:Mario Soldati [Soldati, Mario]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Minimumfax


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Roma

Ancora una volta, mi si invita a parlare di Roma. E un argomento che mi fa del male. Roma è per me un pozzo senza fondo di ricordi. Ricordi anche belli, certo: bellissimi e dolcissimi. Ma non c’è dubbio che il senso, o piuttosto il gusto finale di tutti questi ricordi, belli, men belli e brutti, sia amaro, sia disperato. Vorrei trovare una parola che da sola significasse: umiliazione, frustrazione, rimorso, rimpianto, rancore... Chissà, la parola più vicina al complesso ancora ansioso e sempre doloroso di tutto quanto provo per Roma è forse questa: fallimento.

Fallimento mio personale, prima di tutto. Ma, sebbene mi sforzi, sono incapace di distinguere nettamente fra ciò che fu Roma per me e ciò che Roma è per tutti, specialmente per tutti gli italiani. E poi, può anche darsi che ostinarmi a distinguere sia ingiusto. Può darsi anche che il senso ultimo, il valore più profondo di Roma sia proprio questo: coincida con la più vera di tutte le verità. Perché ogni vita termina con una morte. Perché il fallimento, dunque, è il significato estremo di tutte le cose. Perché non solo gli individui, ma i popoli e le civiltà presto o tardi scompaiono. E così Roma, chiamata eterna proprio perché, tra tutte le grandi città antiche, è l’ultima ancora viva, viva senza interruzioni, senza soluzioni di continuità (Gerusalemme, Atene, Alessandria hanno ben poco a che vedere con le loro omonime precristiane), così Roma, chiamata eterna perché sarebbe un’immagine dell’eternità, in realtà e la più vicina, la prossima a finire. Roma simula un’eternità che non esiste. O, addirittura, è chiamata eterna a ragione: perché meglio di tutte le altre città e meglio di tutti gli altri luoghi della terra comunica il senso dell’eterno, che è poi solo il senso del nulla.

Il ricordo più certo che ho di Roma si identifica con questo senso.

Notti di luglio, di agosto, verso le due o le tre. Silenzio. Pace. Aria tiepida e ferma. Luna piena. Abitavo al centro di Roma. Dopo aver fatto l’amore con una gioia estrema, con un trasporto senza residui, nella fiamma dura e avvolgente dei miei trent’anni, mi affacciavo alla finestra, guardavo a lungo nella luce argentea i tetti grigi e appena rosa, le cupole grigie e ormai spente, guardavo il cielo, la luna: ed era come se avessi aperto le persiane non su via Gregoriana ma sulla verità del nulla. Capivo di avere capito tutto quello che c’era da capire. Ero piombato, affacciandomi su Roma, dalla felicità assoluta dell’attività più vitale all’assoluto dolore della più mortale inerzia.

Qualcuno forse dirà che anche questo, e qualcun altro dirà che almeno questo è un segno della grandezza di Roma.

Non sono d’accordo. Se in fondo c’è il nulla, se la fine di tutto è il fallimento, d’istinto amo e amerò fino all’estremo anelito tutto ciò che più vive. Vive: ossia (altro non è il miracolo della vita) finge per brevi tempi che non esista il nulla. Non ho mai simpatizzato, neppure un attimo, con la dittatura perché postulava e includeva un rituale funebre.



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